N’drangheta, processo “Aemilia”: confermata in Cassazione la condanna a tredici anni di carcere per Giuseppe Iaquinta
La sentenza della Suprema Corte accoglie le richieste dell’accusa di confermare le condanne inflitte a vertici e affiliati della cosca di n’drangheta operante in Emilia Romagna e legata al clan dei “Grande Aracri“ di Cutro. Per il processo di N’drangheta sono stati comminati tredici anni a Iaquinta.
Tra gli imputati del maxi processo “Aemilia” anche Giuseppe Iaquinta, padre del noto calciatore Vincenzo Iaquinta, condannato a 13 anni di carcere per concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso.
Il processo N’drangheta “Aemilia”
Il processo denominato “Aemilia” nasce dall’inchiesta che a gennaio del 2015 ha scoperchiato il vaso della n’drangheta svelando le infiltrazioni ed il radicamento della nota organizzazione criminale calabrese in Emilia-Romagna.
Al termine del procedimento di primo grado, conclusosi nell’ottobre 2018, il Tribunale di Bologna ha inflitto agli imputati cumulativamente ben 1200 anni di carcere, poi ridotti a 712 in appello.
Nelle motivazioni della sentenza i Giudici della Corte d’Appello di Bologna hanno certificato il radicamento dei clan soprattutto a Reggio Emilia e Modena, anche se presenze mafiose e affari criminali vennero segnalate anche in altre province come Parma e Piacenza.
Secondo i Giudici della Corte d’Appello, infatti, “padrini e affiliati della cosca indossavano i panni nuovi della criminalità imprenditoriale, impegnata a fare soldi e ad acquisire potere, a tessere nuove trame lavorando a cavallo tra la finanza sporca e i mercati dell’economia pulita”.
La conferma della Corte di Cassazione per Iaquinta: tredici anni
A fronte dei numerosi ricorsi presentati dagli imputati, compreso Iaquinta, la Corte di Cassazione ha confermato gran parte delle condanne inflitte nei precedenti gradi di giudizio.
Tale sentenza, secondo quanto affermato all’indomani della pronuncia dalla procuratrice Generale presso la Corte d’appello di Bologna, ha confermato la circostanza per cui “l’Emilia-Romagna è un distretto di mafia“.
E mafioso, dunque, sarebbe anche Iaquinta Senior, il quale, come affermato in apertura, è stato condannato in via definitiva a tredici anni di carcere per concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso ai sensi dell’art. 416 bis c.p. .
Il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso N’drangheta e il concorso del c.d. “extraneus”
L’art. 416 del codice penale prevede che “chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da dieci a quindici anni.
Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da dodici a diciotto anni.
L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per se’ o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”.
La fattispecie di “concorso esterno” nel delitto di associazione di tipo mafioso non costituisce un istituto di creazione giurisprudenziale, bensì è conseguenza della generale funzione incriminatrice dell’art. 110 c.p., che disciplina l’istituto del concorso di persone nel reato.
In tema di associazione di stampo mafioso, dunque, assume il ruolo di concorrente “esterno” nel reato colui che, pur non essendo inserito stabilmente nella struttura organizzativa del sodalizio criminale, fornisce un contributo di natura materiale o morale, sempre che questo esplichi un’effettiva rilevanza causale e, quindi, si configuri come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima.
Il ruolo di Giuseppe Iaquinta nei fatti del processo per N’drangheta
Ad opinione dei Giudici della Suprema Corte, Giuseppe Iaquinta ha svolto un ruolo fondamentale per il sodalizio, rappresentando la figura dell’imprenditore di successo, oltre che padre di un calciatore famoso.
Gli Ermellini, nel solco del giudizio di appello, hanno chiarito come l’imputato, consapevolmente, si sia prestato alla cosca criminale consentendone l’infiltrazione nei settori economici e politici della zona in occasione di affari leciti o illeciti dell’associazione, talvolta anche avvantaggiandosene personalmente.
A diversa conclusione è giunto il difensore dell’imputato Iaquinta, ad opinione del quale una condanna ai sensi dell’art. 416 bis c.p. non può essere edificata su mere situazioni di status, in quanto occorre la fattiva partecipazione del soggetto a un sodalizio, ovvero un ruolo dinamico e funzionale.
Lo stesso ha infatti censurato la predetta pronuncia appellandosi al principio di diritto, elaborato dalla Cassazione nella nota sentenza Mannino, secondo cui “è punibile l’affiliato che è parte attiva del sodalizio e prende parte alle attività del gruppo non esaurendosi la sua condotta in una affermazione di status o in una manifestazione di volontà unilaterale”.
Secondo la difesa dell’imputato Iaquinta la Suprema Corte, contravvenendo a tale principio, avrebbe condannato Giuseppe Iaquinta non tanto in virtù dell’effettivo beneficio fornito da quest’ultimo alla consorteria criminale, bensì in forza del suo status di imprenditore, di padre di un calciatore famoso, che gli avrebbe permesso, secondo l’erronea interpretazione fornita dell’organo giudicante, di rafforzare l’organizzazione criminale.