L’origine della questione affrontata dalla Corte Costituzionale
L’emergenza epidemiologica da Covid 19 ha determinato il Governo ad emettere con celerità un provvedimento per l’adozione di “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale” al fine di promuovere la ripresa economica del Paese dopo il blocco delle attività produttive che ha caratterizzato la prima fase dell’emergenza pandemica.
Il decreto-legge 16.07.2020, n. 76 contiene, infatti, un complesso di norme eterogenee accomunate dal predetto obiettivo.
Il decreto è stato convertito, con modificazioni, nella legge 11.09.2020, n. 120. (clicca qui per leggere il testo normativo).
Per quanto di interesse, l’art. 23, comma 1, ha modificato l’art. 323 c.p. il reato di “Abuso d’ufficio”.
Il reato di abuso d’ufficio prima della riforma del 2020
Si tratta di un reato proprio poiché per la sua configurazione, il soggetto deve rivestire una qualifica specifica: quella di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.
Ne consegue come questo reato non possa essere commesso da chiunque, ma solo da chi rivesta quella specifica qualifica.
Affinché si configuri il reato, devono sussistere tutti i seguenti elementi:
- qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio;
- la condotta illecita deve essere effettuata nello svolgimento delle funzioni o del servizio;
- devono essere violate norme di legge o di regolamento;
- la condotta procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale oppure provoca ad altri un danno ingiusto.
Il reato si configura anche quando, in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, il soggetto non si astenga dal porre in essere una condotta.
Quest’ultima ipotesi è identificabile nel conflitto di interessi: il pubblico ufficiale non prenderebbe una decisione imparziale.
Il reato di abuso d’ufficio dopo la riforma del 2020
Con l’art. 23, comma 1, del d.l. n. 76 del 2020, è stata modificata una parte dell’articolo 323 c.p. .
Infatti, è stato specificato un elemento: il tipo di normativa che il pubblico ufficiale deve violare affinché si configuri il reato.
Se prima del 2020 la condotta illecita avveniva in violazione di norme di legge o di regolamento, con il decreto, il comportamento è posto in essere
“in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge”.
Le regole violate richiamano un comportamento che deve essere tenuto in modo “automatico”, senza che residuino margini di discrezionalità.
L’ambito di operatività del reato è significativamente ridotto.
Cosa cambia a seguito della riforma del 2020?
L’ambito di applicazione della norma è più ristretto.
Infatti, la violazione:
- deve riguardare solo una regola di condotta;
- deve essere specifica ed espressamente prevista da una legge o da un atto avente forza di legge;
- concerne una regola che preveda un potere vincolato.
Sono quindi escluse, ad esempio, le violazioni di regole:
- organizzative;
- previste dalle norme regolamentari;
- che prevedano un margine discrezionale.
Parimenti, rimarrebbe esclusa la violazione di norme di rango costituzionale e legislativo, trattandosi di disposizioni recanti principi generali, e non già di specifiche regole di condotta dalle quali non residuino margini di discrezionalità.
Il caso analizzato dalla Corte Costituzionale
Nell’ambito di una procedura concorsuale indetta da un’azienda ospedaliera, per il conferimento di incarichi di dirigente medico, tre soggetti avrebbero indebitamente favorito gli altri due coimputati.
Il favore sarebbe consistito nel:
- garantire l’ammissione alla procedura;
- collocare i soggetti in posizione utile nella graduatoria finale;
- assegnazione di un punteggio superiore rispetto a quello riconosciuto ad altri candidati in possesso di titoli equipollenti o addirittura superiori.
A ben vedere, i candidati sarebbero stati perfino privi del titolo di specializzazione, pre-requisito per partecipare al bando.
Tra gli imputati vi sarebbe una conclamata amicizia.
La tesi difensiva per il reato di abuso d’ufficio
Secondo i difensori degli imputati, la nuova norma dovrebbe essere dichiarata incostituzionale in quanto:
- la modifica è stata adottata con un provvedimento di straordinaria necessità ed urgenza relativo all’accelerazione degli investimenti e delle infrastrutture attraverso la semplificazione delle procedure in materia di contratti pubblici e di edilizia;
- una modifica così incisiva avrebbe richiesto un adeguato dibattito parlamentare;
- la riforma si limita a delimitare la responsabilità penale dei funzionari pubblici in relazione all’attività svolta e non a fronteggiare specifici eventi eccezionali;
- la norma modificata sarebbe assolutamente avulsa dalle ragioni giustificatrici della normativa adottata in via d’urgenza dal Governo;
- la finalità di semplificare l’azione amministrativa si porrebbe in contraddizione con il principio di celerità che ha ispirato il decreto – legge;
- l’estremo restringimento dell’ambito operativo del reato comporterebbe un reato “impossibile” poiché estremamente raro nella sua verificazione in concreto;
- le condotte della pubblica amministrazione relative all’esercizio di un potere di attività vincolato sarebbero residuali;
- infatti, l’inosservanza di un vincolo di condotta integrerebbe il reato di omissione di atti d’ufficio.
Un principio cardine dell’ordinamento italiano
Prima di conoscere la decisione della Corte Costituzionale è doverosa una, breve e certamente non esaustiva, premessa.
Nell’ordinamento italiano è previsto un principio cardine che può essere riassunto nel divieto di applicazione di una norma o di una disciplina che sia peggiorativa per l’imputato – in malam partem.
In breve, detto principio stabilisce che, nel caso in cui, durante il procedimento penale, sopraggiunga una modifica normativa, questa verrà applicata all’imputato solo se favorevole a quest’ultimo.
Nel caso in cui la nuova – o modificata – norma determini una situazione peggiore per l’imputato, non dovrà essere applicata.
A mero titolo semplificativo, segue una semplice ipotesi di applicazione del seguente principio.
Tizio commette il reato di abuso d’ufficio nel 2019.
In quell’anno, il reato è punito con la pena della reclusione da 1 a 4 anni.
Se nel 2020 interviene una modifica dell’illecito penale che prevede che il reato sia punito con la pena della reclusione da 6 mesi a 2 anni, ed il processo è ancora in corso, questa norma più favorevole verrà applicata anche a Tizio.
Se, invece, nel 2020 si stabilisce che l’art. 323 c.p. venga punito con la pena della reclusione da 2 a 8 anni, questa modifica non varrà per Tizio, poiché prevede una disciplina peggiorativa.
La decisione della Corte Costituzionale
L’ambito operativo della Corte Costituzionale
Il principio poc’anzi sommariamente esposto ha ulteriori declinazioni.
Infatti, vi è il divieto di richiesta di emissione di una sentenza peggiorativa – in malam partem.
La Corte Costituzionale ha l’onere di verificare che le norme siano conformi alla Carta Costituzionale.
Nell’ambito dei poteri attribuiti alla Corte, però, non vi è la possibilità di:
- creare nuove fattispecie;
- estendere le fattispecie esistenti a casi non previsti;
- incidere in peius sulla risposta punitiva;
- incidere su aspetti inerenti alla punibilità di un soggetto.
La Corte, quindi, afferma che, nel caso in cui si dichiarasse la incostituzionalità della norma così come riformulata, questa operazione determinerebbe una dilatazione ed un ampliamento del perimetro di rilevanza penale assolutamente precluso per la Corte.
Infatti, la scelta di restringere le condotte penalmente rilevanti, è una scelta di politica criminale che spetta all’organo legislativo – nel caso di specie al Governo, trattandosi di Decreto Legge.
La Corte Costituzionale non ha potere decisionale sul punto.
Le conseguenze della pronuncia nel caso di specie
Inoltre, secondo la formulazione odierna, la condotta degli imputati non sarebbe più astrattamente punibile e, quindi, gli imputati dovrebbero poter essere assolti – residuerebbe però l’analisi dell’ipotesi di astensione sussistendo un interesse proprio.
Qualora, invece, si dichiarasse l’illegittimità costituzionale della norma, verrebbe applicata la disciplina precedente che include la condotta degli imputati nel novero dei comportamenti penalmente rilevanti e, quindi, determinerebbe una situazione peggiorativa per gli stessi, situazione questa espressamente vietata dall’Ordinamento.
Per quanto concerne le altre doglianze, la Corte Costituzionale ha ritenuto sussistente il collegamento tra la modifica dell’art. 323 c.p. e la ratio ispiratrice del decreto legge in quanto tale collegamento deve ritenersi individuabile nell’idea che la ripresa del Paese possa essere facilitata da una più puntuale delimitazione delle responsabilità.
Invero, accade spesso che la Pubblica Amministrazione rimanga inerte proprio per paura di incorrere in responsabilità penali – c.f. fenomeni della “Paura della firma” e della “burocrazia difensiva”.
Pertanto, il timore di un’imputazione per abuso d’ufficio, si tradurrebbero, in quanto fonte di inefficienza e immobilismo, in un ostacolo al rilancio economico, che richiede, al contrario, una pubblica amministrazione dinamica ed efficiente.
PQM
La Corte Costituzionale, quindi,
1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 1, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120, sollevata, in riferimento all’art. 77 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Catanzaro con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 1, del d.l. n. 76 del 2020, come convertito, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Catanzaro con l’ordinanza indicata in epigrafe.
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Avv. Fabio Ambrosio, Dott.ssa Martina Isella