Il reclamo è impugnabile entro 15 giorni e non più in 24 ore: un passo a favore dei diritti dei detenuti
Una disposizione in palese violazione del diritto di difesa, che da 24 anni (era il 1996) è sempre stata ampiamente “criticata” dalla Corte Costituzionale.
Questo costituisce l’oggetto dell’intervento giurisprudenziale più significativo: la dichiarazione di incostituzionalità.
Lo stabilisce la sentenza n. 113 del 2020 del 27 maggio, depositata in data 12 giugno 2020.
Il termine di 24 ore, previsto dall’ordinamento penitenziario per consentire al detenuto di proporre reclamo contro il rigetto del permesso premio, viola il diritto di difesa e la stessa funzione rieducativa della pena.
Il termine per impugnare questo tipo di provvedimento dovrebbe invece essere di 15 giorni, così come previsto dall’articolo 35-bis, comma 4 o.p. per il reclamo contro le decisioni della autorità giudiziaria.
Viene pertanto dichiarata incostituzionale la norma dell’ordinamento penitenziario (art. 30-ter, comma 7 o.p.) nella parte in cui stabilisce in 24 ore, anziché in 15 giorni, il tempo per impugnare il provvedimento sul permesso premio.
La normativa censurata determina infatti la sostanziale applicazione della medesima disciplina, in relazione ai termini di impugnazione, prevista per i permessi di “necessità”.
Permessi di necessità e Permessi premio.
Secondo la Corte, risulta però irragionevole equiparare, ai fini dei termini, due istituti sostanzialmente diversi.
Nel permesso per necessità, chiesto per malattia o morte di un familiare, la brevità del termine per impugnare è giustificata dall’urgenza stessa che lo caratterizza.
Inoltre, questo tipo di permesso può essere concesso anche a chi non è definitivo.
Diversamente, il permesso premio ha la tipica funzione del reinserimento sociale del condannato.
Il termine strettissimo riconosciuto per il reclamo, rende difficile, se non impossibile, l’intervento di un difensore di fiducia o comunque rende arduo poter argomentare in modo compiuto ed efficace le ragioni a sostegno dell’ impugnazione.
Proprio per queste ragioni la Corte ha ritenuto sussistente la violazione del diritto di difesa.
La Corte Costituzionale, nel 1996, era già intervenuta, sollecitando il legislatore a provvedere «quanto più rapidamente possibile, alla fissazione di un nuovo termine…» anche se non era riuscita a ravvisare nell’ordinamento una soluzione «costituzionalmente obbligata che potesse consentire di porre direttamente rimedio».
Con un’ordinanza di rinvio della Cassazione, la Corte Costituzionale prende atto dell’inerzia del legislatore, durata ben 24 anni.
La Corte ribadisce la contrarietà del termine ai principi fondamentali del nostro ordinamento, individuando quale soluzione la disciplina generale del reclamo avverso le decisioni del Magistrato di Sorveglianza, introdotta dal legislatore nel 2013.
Ancora una volta sarà tuttavia necessario attendere un’eventuale presa di posizione del legislatore.
Spetta infatti a quest’ultimo decidere se indicare un termine differente da quello censurato dalla Corte, nel pieno rispetto dei principi costituzionali, per disciplinare questo specifico reclamo.