Rifiuti: la combustione è reato?

Il reato di combustione illecita di rifiuti

La combustione di rifiuti è reato? L’articolo 256 bis D.Lgs. 152/2000 prevede la punizione con la reclusione da due a cinque anni di «chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata», prevedendo inoltre la pena più alta della reclusione da tre a sei anni nel caso si tratti di rifiuti pericolosi.

La combustione illecita è un reato che può essere commesso sia dolosamente che colposamente e può riguardare sia cose di proprietà pubblica che privata.

La sua pena viene aggravata in caso di incendio doloso che metta in pericolo la vita delle persone o causi gravi danni alle cose.

Ai fini dell’integrazione del reato è sufficiente la presa delle fiamme sui rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata

Unitamente alla reclusione è previsto inoltre a carico dell’autore della condotta ovvero del soggetto ritenuto responsabile:

– il ripristino dello stato dei luoghi;

– il risarcimento del danno ambientale;

– il pagamento delle spese di bonifica anche in via di regresso (nei confronti degli altri condebitori).

La pronuncia della Corte di Cassazione

Con una recentissima sentenza – Corte di Cassazione Penale, Sez. III – 11 gennaio 2021 (dep. 29 aprile 2021), n. 16346, la Cassazione ha ritenuto come, al fine della sussistenza del reato, non sia necessario il verificarsi di un danno all’ambiente né di un pericolo per l’incolumità pubblica.

Per integrare il reato di incendio illecito la disposizione non richiede specificazioni ulteriori alla frase “appicca il fuoco”.

Il caso in questione riguardava un imputato condannato per aver “appiccato il fuoco a un cumulo di rifiuti, che comprendeva anche flaconi di plastica, contenitori di prodotti chimici e altri residui di attività edilizia, accumulati incontrollabilmente sul fondo di sua proprietà”.

La differenza tra il reato di cui all’art. 256 bis D.Lgs. 152/2000 e gli artt. 424 e 423 c.p.

L’art. 424 c.p. prevede: “chiunque, al solo scopo di danneggiare la cosa altrui, appicca il fuoco a una cosa propria o altrui è punito, se dal fatto sorge il pericolo di un incendio, con la reclusione da sei mesi a due anni”.

L’utilizzo della locuzione «appicca il fuoco» in luogo di «cagiona un incendio» già di per sé identifica un’anticipazione della tutela, in quanto quest’ultimo è un evento nel quale «il fuoco divampi irrefrenabilmente con fiamme che si propaghino con potenza distruttrice».

Nel caso dell’art. 424 c.p., quindi, è sufficiente la presa delle fiamme sui rifiuti, indipendentemente da un eventuale sviluppo e dal pericolo per l’altrui incolumità (o da un danno all’ambiente) che, secondo l’argomentazione della Suprema Corte, non è espressamente indicato nella disposizione di cui all’art. 256 bis T.U.A. e di conseguenza non è richiesto ai fini dell’integrazione della fattispecie.

Sotto tale profilo, essa appare dunque ben più gravosa rispetto all’ipotesi di incendio di cosa propria di cui al secondo comma dell’art. 423 c.p., la quale, richiedendo anche l’esposizione a pericolo della pubblica incolumità, costituisce esempio di migliore bilanciamento con il diritto del proprietario di disporre della cosa propria.

La differenza tra il reato di danneggiamento seguito da incendio (424 c.p.) e di incendio (423 c.p.) è, però, nell’elemento psicologico che, nel caso dell’incendio, è il dolo generico, mentre, nel caso del danneggiamento seguito da incendio è il dolo specifico di danneggiamento (“al solo scopo di danneggiare la cosa altrui”).